Storie del diabete - A.G.D. Como ODV - Associazione di aiuto ai giovani diabetici -





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Storie del diabete

Argomenti trattati > Il Diabete > Cosè il diabete?

Il diabete nella storia
Diabete: “dia” = attraverso “bete” = passare
dal greco

Introduzione

Il diabete è rimasta una malattia relativamente rara sinché lo zucchero non è diventato un genere alimentare a basso costo (circa nella seconda metà del presente secolo). Da almeno quattromila anni, però, la condizione patologica del diabete è conosciuta in campo medico, e la prima evidenza storica è riportata nel papiro egizio di Ebers, scritto intorno al 1550 Avanti Cristo.
Successivamente, testi indiani risalenti al 800-600 Avanti Cristo riportano casi di diabete, mentre la malattia era ben conosciuta nelll'antichità classica greca e romana.
La conoscenza del diabete nell'antichità classica fu sintetizzata nei lavori del medico ellenistico Areteo di Cappadocia (120-200 Dopo Cristo), che scrisse un trattatello "Sul diabete". Questo lavoro rimase un classico testo per l'insegnamento e la pratica medica del diabete sino al milleottocento. Infatti, l'illustre medico italiano Giovan Battista Morgagni (1682-1771) scrisse nel 1761 vari capitoli dedicati alla descrizione, diagnosi, terapia e persino le cause (patogenesi) della malattia diabetica nelle sue varie manifestazioni. La maggior parte delle informazioni riportate dal Morgagni risalgono chiaramente ad Areteo e l'unico sostanziale innovamento riguardava cenni alla restrizione dietetica dei pazienti, che non era descritta nei testi classici. Inoltre, il Morgagni scrisse con grande intuito scientifico: “La causa (del diabete) non può essere una”.
Questa frase accuratamente descrive lo stato attuale delle conoscenze sulla patogenesi del diabete, che è considerato avere molteplici origini

Cronologia


1500 A.C. - Il Papiro di Erbers degli antichi egiziani fornisce un certo numero di rimedi per combattere l'eccessivo bisogno di urinare (poliuria).

Gli Indù nell'Ayur Veda riportavano che gli insetti e le mosche erano attratti dalle urine di alcune persone, che tali urine avevano un gusto dolce, e che questo era associabile a certi disturbi.

1000 A.C. - Il padre della medicina in India, Susruta, Indù, diagnosticò il Diabete Mellito (DM).

Gli antichi greci non sapevano come trattare il DM. In seguito, Celsus e Galen descrissero la condizione patologica "diabete", mentre Aretaeus definì la differenza tra DM e Diabete Insipido (DI), un raro disturbo caratterizzato da poliuria e sete intensa.

276 A.C. - Demetris di Apamea perfezionò la diagnosi di DM.

230 A.C. - Caelius Aurelianus disse che Apollonio di Memphis coniò il termine “diabete”. Apollonio pensava che fosse una forma di idropisia.

Paolo di Aegina rifinì ulteriormente la diagnosi di “dypsacus” (diabete), associata con debolezza dei reni ed eccessiva sudorazione del corpo, che portava alla disidratazione. Egli prescriveva un rimedio a base d'erbe (indivia, lattuga, inula hellenium, succo di polygonum aviculare) e pesce di scoglio in vino rosso e decotti di datteri e mirtilli da bere nella prima fase della malattia, seguiti da cataplasmi all'ipocondrio sopra i reni consistenti di aceto, olio di rose ecc. Egli metteva in guardia contro l'uso di diuretici, ma permetteva il taglio delle vene.

45-117 D.C. - Aetius prescriveva una dieta rinfrescante, vino diluito e applicazioni refrigeranti ai reni come cura per il DI. Negli stadi successivi del diabete proponeva l'uso di oppiacei e mandragola.

865-925 D.C. - Lo scrittore arabo Rhazea tradusse e divulgò gli scritti indiani sul DM.

900-1037 D.C. - Avicenna proponeva farmaci in grado di provocare il vomito e di stimolare la produzione di sudore, consigliava di evitare cibi o sostanze diuretiche e indicava ai suoi pazienti di praticare esercizio fisico (in particolare equitazione) per "adoperare un leggero massaggio". Negli stadi successivi del DM raccomandava bagni tiepidi e vino aromatico.

Il musulmano Hali Abbas credeva che il DM fosse causato da un eccesso di calore nei fluidi corporei.

1257 D.C. - I medici prescrivevano l'uso di purganti per alleviare la tensione sui reni e di farmaci astringenti e refrigeranti.

1501-1576 D.C. - Cardona misurò la quantità di fluidi assunti ed emessi e vi trovò una grande discrepanza, concludendo che i pazienti diabetici perdevano più acqua di quanta ne assumessero a causa di una qualche ragione sconosciuta.

1622-1675 D.C. - Vi fu una riscoperta dei lavori del medico indù Susruta. Si credeva che il DM fosse dovuto a cambiamenti degli umori del corpo e ad eccessi nel bere. Si teorizzò che il DM fosse una malattia del sangue. Come rimedio si prescrivevano astringenti.

1798 D.C. - John Rollo attestò la presenza di zucchero in eccesso nel sangue.

1813-1878 D.C. - Claude Bernard ipotizzò che il DM fosse causato dalla glicogenolisi (scissione) del glicogeno immagazzinato nel fegato.

1816-1876 D.C. - L. Traube si accorse che l'ingestione di carboidrati e la loro digestione faceva aumentare la quantità di zucchero nelle urine. Se si interrompeva l'assunzione di carboidrati scompariva la maggior parte di tale zucchero.

1889 D.C. - Mehring e Minkowski indussero il DM in alcuni cani asportando loro il pancreas.

1921 D.C. - Banting e Best scoprirono che l'insulina era prodotta da alcune cellule del pancreas.


Fonti: "Diabete mellito: passato, presente e futuro", Mauro Degli Esposti
"Sommario" di James H. Knott III da "Medieval & Renaissance Medicine" di Benjamin Lee Gordon, MD, FICS pagg. 539 - 544


La scoperta dell'insulina
La sera del 20 ottobre 1920 il giovane medico canadese dottor Frederick Banting stava preparando la lezione del giorno dopo per gli studenti; riassumeva quanto sin'allora era dato di sapere sul pancreas. A.M. Dobson aveva dimostrato nel 1776 che le urine del soggetto diabetico contengono zucchero, e solo un centinaio di anni dopo von Mering e Minkowsky avevano osservato nel cane che l'asportazione del pancreas provoca il diabete. In più, Langerhans aveva scoperto nel tessuto pancreatico raggruppamenti cellulari poi indicati come "isole di Langerhans",
che producevano "fermenti" che si versano direttamente nel sangue.
A Banting non ci volle gran che per concludere che i legami tra il pancreas e il diabete erano più che evidenti. Forse era questa la chiave per scoprire il mistero del diabete e dare qualche speranza a milioni di pazienti.
Banting partì dalla constatazione che la legatura del dotto pancreatico (attraverso cui il succo pancreatico viene convogliato nell'intestino) provoca degenerazione del pancreas tranne che delle cellule del Langerhans. Se non proprio queste le cellule interessate al difetto che ne è alla base, pensò Banting, non è escluso che somministrandone un estratto il diabete possa essere controllato.
Per condurre queste ricerche ottenne da Macleod, direttore del laboratorio di fisiologia dell'Università di Toronto, una decina di cani, e l'aiuto di un giovane studente di medicina, Ch. Best.
Banting e Best legarono il dotto pancreatico ad un cane: dopo qualche settimana il pancreas era degenerato divenendo non più grande di un pollice.
Essi triturarono allora il residuo in un mortaio, riducendolo in poltiglia e filtrandolo.
Ore 10 del 27 luglio 1921: una cagnetta diabetica è quasi morente, in coma. Banting le somministra l'estratto di pancreas così ottenuto. L'attesa è drammatica. Ma dopo qualche momento la cagnetta comincia a scodinzolare e a saltare di qua e di là. La ricerca dello zucchero nell'urina che Best esegue ogni ora indica una riduzione progressiva dello zucchero: a 5 ore dall'esperimento essa risulta 75 volte inferiore alla concentrazione di partenza. Sembra un miracolo.
Ma a guastare la festa, la cagnetta il giorno dopo muore. Sarebbe occorsa tanta altra "isletina" (così Banting battezza inizialmente la sostanza che ha estratto dalle isole). Ma per mantenere in vita un cane, ci vuole il pancreas di ben altri otto cani.
Come procurarsi tanto materiale, e, dopo, come usarlo nell'uomo?
Il problema è presto risolto: ci si rivolge al mattatoio comunale, dove i pancreas degli animali vengono gettati via. Gli esperimenti continuati su numerosi altri casi resi sperimentalmente diabetici, sempre con gli stessi successi.
Ma giunge immancabilmente il momento di provare la nuova sostanza anche nell'Uomo. Ci vuole qualcuno disposto a sottoporsi alla prova.
L'uomo si chiama Joe Gilchrist: è un laureato in medicina mal ridotto dal diabete, in condizioni disperate. Gli somministrano l'isletina. "Non appena mi ripresi -dirà più tardi- diventai la cavia, il cane, il coniglio più prezioso del laboratorio".
Fu poi Macleod a trovare il nome di "insulina", e Collip a renderla somministrabile.
Toronto divenne ben presto la città della speranza per milioni di diabetici, e la notizia della scoperta dell'insulina fece immediatamente il giro del mondo. Per essa, nel 1923 fu assegnato a Macleod e a Banting il Premio Nobel per la Medicina: inconcepibilmente ne fu escluso il giovane Best, che vi aveva contribuito in modo così determinante.


Questo eccezionale documento, per la prima volta tradotto e pubblicato in Italia, ripercorre le tappe di una delle più straordinarie scoperte della medicina moderna, che ha completamente cambiato la prognosi di una malattia sino ad allora letale, restituendo alla vita milioni e milioni di diabetici. Si tratta della lettura Nobel di Frederick Banting, autore dell’impresa assieme al giovanissimo Charles Best nel remoto Luglio 1921, nella lontana Toronto. Due nomi ed una storia misconosciuti ma che tutti i diabetici dovrebbero doverosamente conoscere e ricordare. Auguro a tutti una buona lettura, nella speranza che si valorizzi la memoria del passato per poter pensare con più ottimismo al futuro. Dedicato a tutti i bambini diabetici ed ai loro genitori, perché non siano tristi ed abbiano fiducia nel progresso e nei suoi silenziosi e solerti operatori.
Carmelo D’Alessio




Frederick G. Banting – Lettura Nobel

15 Settembre 1925

Diabete e insulina
Signori, mi sento profondamente onorato per aver ricevuto il Premio Nobel del 1923 insieme al Professor J.J.R. Macleod. Sono pienamente consapevole della responsabilità su cui si fondano alcuni aspetti del mio lavoro sull’insulina. È quanto mi propongo di fare oggi e mi dolgo che non mi sia stata presentata prima l’opportunità di adempiere a questo dovere.
Diabete e insulina
Da quando von Mering e Minkowski hanno provato che la rimozione del pancreas nei cani produceva diabete grave e letale, i fisiologi ed i clinici hanno spesso tentato di ottenere dal pancreas una secrezione interna che potesse favorire il trattamento del diabete mellito. Cominciando proprio da Minkowski, molti osservatori hanno analizzato varie forme di estratti pancreatici. Tra le sostanze usate vi erano acqua, soluzione salina, alcool e glicerina. Gli estratti così ottenuti furono somministrati per via orale, sottocutanea, endovenosa o per via rettale, sia agli animali da esperimento sia agli uomini ammalati di diabete. Si ottennero piccoli o nulli miglioramenti e quei pochi positivi furono offuscati dai loro effetti tossici. Nel 1908, Zuelzer provò estratti alcolici su 6 casi di diabete mellito e ottenne risultati positivi e, in un caso di diabete grave, si eliminò la glicosuria. Il suo estratto fu testato allora da Forschbach nella clinica di Minkowski con risultati meno positivi e la ricerca venne abbandonata da questo gruppo di lavoro. Rennie trovò che le isole pancreatiche esistevano separate dalle cellule dell’acino in alcuni pesci e, d’accordo con Fraser, gli estratti delle prime isole pancreatiche furono provati sia sugli animali che sull’uomo. I suoi risultati, tuttavia, non furono abbastanza convincenti da giustificarne l’applicazione clinica. Il problema dell’estrazione del principio antidiabetico dal pancreas fu affrontato soprattutto da fisiologi tra cui Scott, Paulesco, Kleiner e Murlin.
Mentre i fisiologi compivano questi sforzi, preziose conoscenze venivano conseguite sul metabolismo glucidico. Lewis e Benedict, Folin e Wu, Schaffer e Hartman, Ivar Bang elaborarono metodi per stimare accuratamente la percentuale di zucchero in un piccolo campione di sangue. Nel contempo, vaste conoscenze venivano accumulate sul metabolismo basale. Grande attenzione fu riservata all’importanza relativa delle varie derrate alimentari e particolare enfasi fu posta sul trattamento dietetico del diabete. Guelpa, von Noorden, Allen, Joslin e Woodyatt hanno elaborato sistemi alimentari per diabetici.
Il 30 Ottobre 1920, fui attratto da un articolo di Moses Baron, in cui egli sottolineava l’analogia tra le alterazioni degenerative nelle cellule dell’acino del pancreas dopo legatura sperimentale del dotto e modificazioni dopo il blocco del dotto con i calcoli biliari. Dopo aver letto questo articolo, mi si presentò l’idea che, legando il dotto ed aspettando che le cellule dell’acino degenerassero, si potesse ottenere un estratto delle isole pancreatiche libero dall’influenza distruttiva della tripsina e di altri enzimi pancreatici.
Il 14 Aprile 1921, iniziai a lavorare a questa idea nel Laboratorio di Fisiologia dell’Università di Toronto. Il Professor Macleod mi affidò come collaboratore il Dr. Charles Best. Il nostro primo passo fu quello di legare i dotti pancreatici in numerosi cani. Dopo sette settimane, questi cani furono cloroformizzati. Il pancreas di ogni cane fu rimosso e tutti gli organi si presentarono disseccati, fibrotici e circa un terzo delle dimensioni originarie. L’esame istologico mostrò che non c’erano cellule dell’acino integre. Questo materiale fu tagliato in piccoli pezzi, macinato con sabbia ed estratto con soluzione salina. Il prodotto così ottenuto fu testato su un cane reso diabetico attraverso la rimozione del pancreas. Dopo l’iniezione endovenosa, la glicemia dei cani depancreatizzati si ridusse entro limiti normali o subnormali e nelle urine non si rilevò glicosuria. Ci fu un notevole miglioramento delle condizioni cliniche generali, evidenziato dal fatto che gli animali diventarono più robusti ed attivi, le ferite aperte guarirono più prontamente e la loro vita si prolungò.
I risultati positivi ottenuti da questo primo tipo di estratto comprovavano l’ipotesi che la tripsina distruggeva il principio antidiabetico e suggeriva l’idea che, attraverso la sua eliminazione, si sarebbe potuto ottenere un estratto attivo. Il secondo tipo di estratto fu ricavato da pancreas di cani in cui le cellule acino erano state esaurite dalla tripsina con iniezione prolungata di secretina. Sebbene molti degli estratti ottenuti con questo metodo, producevano marcate diminuzioni della glicemia e migliorassero la condizione clinica generale, non fu sempre possibile svuotare completamente la ghiandola e, quindi, spesso si presentarono effetti tossici. Il terzo tipo di estratto usato in questa serie di esperimenti fu ottenuto da pancreas di feti vitellini con meno di quattro mesi di sviluppo. Laguesse aveva riscontrato che il pancreas dei neonati conteneva comparativamente più isole rispetto al pancreas dell’animale adulto. Giacché si conosce che altre ghiandole di secrezione interna contengono il proprio principio attivo appena differenziate nel loro sviluppo embrionale, mi venne in mente che la tripsina avrebbe potuto non essere presente poiché non viene usata sino a dopo la nascita dell’animale. Successivamente, notai che Ibrahim aveva mostrato che la tripsina non è presente sino al settimo/ottavo mese di sviluppo intra-uterino. Gli estratti fetali sarebbero stati preparati in una soluzione molto più concentrata rispetto alle due precedenti varietà di estratto. Essa produsse una marcata diminuzione della glicemia, la glicosuria scomparve e ci fu un notevole miglioramento clinico. Tuttavia, il dato di maggior rilievo fu l’abbondanza con cui era possibile ottenere questi estratti che ci permise di esaminarne la sua estrazione chimica.
Fino ad allora, la soluzione salina era stata usata come un estrattivo. Trovammo che l’alcol acidifica leggermente il principio attivo e, applicando questo metodo di estrazione ad un pancreas intero di bue adulto, ottenemmo estratti attivi relativamente liberi da proprietà tossiche.
Poiché oggi tutti i metodi per la preparazione dell’insulina su larga scala utilizzano l’estrazione acido-alcolica come primo passo nel processo, potrebbe essere una buona idea concentrarsi su questa fase del metodo di preparazione. L’insulina fu preparata dall’estrazione di ghiandole fresche con alcol debolmente acido, la cui concentrazione variava dal 40 al 60% negli esperimenti iniziali. La soluzione alcolica del pancreas veniva filtrata e il filtrato concentrato attraverso l’evaporazione di alcol ed acqua in vacuo o in una corrente d’aria calda. Il materiale lipoide era rimosso estraendo il residuo con toluene o etere. Il prodotto risultante fu l’estratto della ghiandola intera originaria e fummo in grado di mostrare che il materiale attivo contenuto in tale estratto era praticamente insolubile in alcol al 95%.
Gli estratti preparati con questo metodo furono testati su cani depancreatizzati e, in tutti i casi, la glicemia si abbassò. In un caso si raggiunse presto un livello ipoglicemico ed il cane morì a causa di ciò che conosciamo ora essere una reazione ipoglicemica.
Era stato appurato che i cani depancreatizzati non erano in grado di immagazzinare glicogeno nel fegato e che questo scompare tre o quattro giorni dopo la pancreatectomia. Rilevammo che con la somministrazione di glucosio ed estratto, i cani diabetici erano capaci di accumulare al massimo dall’8 al 12% di glicogeno. Raramente i cani diabetici vivono più di 12-14 giorni ma, con la somministrazione giornaliera di questo estratto di ghiandola intera, siamo riusciti a mantenerli vivi e sani per dieci settimane. Al termine di questo periodo il cane veniva cloroformizzato ed un’attenta autopsia non rivelava alcun tessuto insulare.
In quel momento, l’estratto era sufficientemente purificato per essere provato su tre casi di diabete mellito nei reparti del General Hospital di Toronto. Ci fu una marcata riduzione della glicemia e nelle urine non si rilevò glicosuria. Tuttavia, l’elevato contenuto di proteine ne rendeva inopportuno l’uso continuo a causa della formazione di ascessi sterili.
A questo punto della ricerca, nel Febbraio 1922, il Professor Macleod abbandonò il suo lavoro sulla anossiemia ed impiegò il suo intero staff di laboratorio sulla ricerca delle proprietà fisiologiche di ciò che è ora conosciuto come insulina.
Il Dr. Collip si occupò della purificazione biochimica del principio attivo, concepì la scala di precipitazione frazionata con 70-95% di alcol e riuscì ad avere un prodotto finale migliore. Ma, sfortunatamente, il suo metodo non fu applicabile alla produzione su larga scala. A questo tipo di produzione si dedicò allora il Dr. Best, che contribuì in modo decisivo all’istituzione dei principi di produzione e purificazione. Questo lavoro fu condotto nei Laboratori Connaught sotto la direzione del Prof. Fitzgerald, che è così gentile da essere qui oggi.
Si vide che il prodotto finale ottenuto coi primissimi metodi non era sufficientemente puro per l’uso clinico prolungato e gli sforzi furono indirizzati ad assicurare un prodotto migliore. Il metodo dell’acido benzoico di Maloney e Findlay, basato sull’assorbimento dell’insulina dalla soluzione acquosa con acido benzoico, fu usato con successo nei Laboratori Connaught per diversi mesi.
Il Professor Shaffer ed i suoi collaboratori Somogyi e Doisy della Washington University di St. Louis, introdussero un metodo di purificazione conosciuto come “processo isoelettrico”. Tale metodo è basato sul fatto che, se una soluzione acquosa d’insulina è regolata a pH 5, si deposita un precipitato contenente molto del potente materiale e relativamente poche impurità. Dudley trovò che l’insulina era precipitata dalla soluzione acquosa attraverso l’acido picrico ed usò questo riscontro per ideare un metodo assai ingegnoso di purificazione del materiale attivo.
Best e Scott, responsabili per la preparazione dell’insulina nella Divisione Insulina dei Laboratori Connaught, hanno testato tutti i metodi disponibili ed hanno ideato molte nuove procedure che sono risultate vantaggiose. La produzione di insulina ottenuta da Best e Scott nei Laboratori Connaught, attraverso un’estrazione preliminare con acido solforico diluito seguito da alcol, risulta dalle 1.800 a 2.200 unità per chilogrammo di pancreas.
Questo è il metodo di preparazione seguito: il pancreas di bue o di maiale viene finemente tritato in una larga macina ed il materiale così ottenuto viene quindi trattato con 5 cc di acido solforico concentrato, appropriatamente diluito, per ogni libbra di ghiandola. La mistura viene rimescolata per un periodo di 3-4 ore e viene aggiunto alcol al 95% fino a quando la concentrazione di questo ultimo raggiunge il 60-70%. Si fanno due estrazioni di ghiandole. Il materiale solido è quindi parzialmente rimosso centrifugando la mistura e la soluzione viene ulteriormente chiarificata filtrandola con carta. Il filtrato viene neutralizzato con NaOH e concentrato in vacuo a circa 1/15 del suo volume originario. Viene quindi portato alla temperatura di 50°C in modo che i lipoidi e gli altri materiali si separino per poter essere rimossi con la filtrazione. Viene aggiunto solfato di ammonio (37 g per 100 cc) ed il materiale proteico contenente tutta l’insulina galleggia sulla superficie del liquido. Il precipitato viene schiumato e dissolto in alcol acido rovente. Quando il precipitato è completamente dissolto, vengono aggiunti 10 volumi di alcol caldo. La soluzione è quindi neutralizzata con NaOH, raffreddata a temperatura ambiente e tenuta in frigorifero a 5°C per due giorni. Al termine di questo periodo, l’alcol scuro galleggiante viene decantato. L’alcol è praticamente privo di potenza. Il precipitato è essiccato in vacuo per rimuovere ogni traccia di alcol. Esso è allora dissolto in acqua acida, in cui è prontamente solubile. La soluzione è resa alcalina con NaOH a pH 7.3-7.5. A questa alcalinità si deposita un precipitato di colore scuro ed è immediatamente centrifugato fuori. Viene quindi lavato una o due volte con acqua alcalina a pH 9.0 e il prodotto del lavaggio aggiunto al liquido principale. È importante che questo processo sia eseguito abbastanza rapidamente perché l’insulina viene distrutta nella soluzione alcalina.
L’acidità viene in seguito adattata ad un pH 5.0 e un precipitato bianco immediatamente si deposita. Il Tricresolo viene aggiunto ad una concentrazione di 0.3% per favorire la precipitazione iso-elettrica ed agire come conservante. Dopo essere rimasto una settimana in un contenitore ghiacciato, il liquido che galleggia alla superficie del precipitato viene decantato e il liquido risultante viene rimosso mediante centrifuga. Il precipitato viene in seguito dissolto in una piccola quantità di acqua acida. Viene effettuata una seconda precipitazione iso-elettrica adattando l’acidità ad un pH di circa 5.0. Dopo una notte di fermo, il risultante precipitato viene rimosso mediante centrifuga. Il precipitato, che contiene il principio attivo in una forma relativamente pura, viene dissolto in acqua acida e la concentrazione idrogenata viene adattata ad un pH di 2.5. Il materiale viene attentamente analizzato per determinarne la sua efficacia e poi diluito nella concentrazione desiderata di 10, 20, 40 o 80 unità per cc. Il Tricresolo viene aggiunto per assicurare una concentrazione di 0.1%. Viene aggiunto del cloruro di sodio per rendere la soluzione isotonica. La soluzione di insulina viene filtrata mediante il filtro di Mandler e, in seguito, l’insulina viene nuovamente analizzata per testarne l’efficacia. L’insulina analizzata è versata in boccette sterili mediante una metodologia asettica e la sterilità del prodotto finale testata con metodi approvati.
Il metodo per valutare l’efficacia dell’insulina è basato sull’effetto che essa produce sulla glicemia di animali normali. I conigli servono come animali da test e sono tenuti a digiuno per 24 ore prima della somministrazione d’insulina. Il loro peso dovrebbe aggirarsi sui 2 kg. L’insulina viene somministrata in concentrazioni di 10, 20, 40 e 80 unità per cc. L’unità è un terzo della quantità di materiale richiesto per abbassare la glicemia di un coniglio del peso di 2 kg. a digiuno da 24 ore, da un livello normale (118 mg/dl) a 45 mg/dl in un periodo di cinque ore. In un caso di diabete moderatamente grave, una unità copre circa 2.5 grammi di carboidrati. In casi meno gravi, di regola, una unità ha un effetto maggiore, coprendo circa 3 o 4 grammi di carboidrati.
Col miglioramento della qualità dell’insulina, la maggiore conoscenza della sua azione fisiologica e le aumentate quantità a nostra disposizione, siamo ora preparati per una più approfondita ricerca clinica. Nel Maggio 1922, insieme al Dr. Gilchrist fu aperto un nuovo reparto presso il Christie Street Hospital for Returned Soldiers. Successivamente, fu aperto un reparto al General Hospital di Toronto insieme al Dottor Campbell e al Dottor Fletcher ed al Toronto Hospital for Sick Children insieme al Dottor Gladys Boyd. In generale, la prassi seguita in tutti questi reparti era la seguente.
Dopo un’attenta anamnesi, il paziente veniva sottoposto ad un esame fisico completo. Speciale attenzione era riservata alla scoperta di possibili focolai di infezione. Veniva eseguito un esame clinico e radiologico di denti, tonsille, seni, torace ed apparato digerente. Venivano presi in gran considerazione le infezioni del tratto biliare, la stitichezza e l’appendicite cronica. Se si individuava qualsiasi fonte di assorbimento settico, veniva adeguatamente trattata, poiché tali condizioni possono diminuire la tolleranza glucidica. Se indicato, veniva esaminato il fondo dell’occhio per una possibile retinite diabetica o neuro-retinite.
Di routine, l’analisi giornaliera delle urine comprendeva il campione di volume delle 24 ore, la gravità specifica, la reazione ed i test dell’albumina per mezzo di calore o acido nitrico. I corpi chetonici erano stimati per mezzo dei test di Rothera e del cloruro ferrico. Le glicemie furono determinate per mezzo delle soluzioni qualitative e quantitative di Benedict. Oltre a ciò, le glicemie erano ottenute mediante il metodo Schaffer-Hartman e i quozienti respiratori con la borsa di Douglas e l’apparato di gas-analisi di Haldane.
Per prima cosa, il paziente continuava la stessa dieta precedente al suo ricovero in ospedale per determinare la severità del caso e per evitare le complicazioni derivanti da un improvviso cambio di alimentazione. Il coma sarà discusso separatamente. Il secondo o terzo giorno il paziente era sottoposto ad una dieta, il cui valore calorico era calcolato sul suo fabbisogno basale, determinato quest’ultimo dal grafico di Dubois e dalle tavole di Aub-Dubois. Marsh, Newburgh e Holly hanno stimato che, per mantenere l’equilibrio azotato, l’organismo necessita giornalmente di 2/3 di un grammo di proteine per ogni chilogrammo di peso corporeo. Le rimanenti calorie devono essere fornite da carboidrati e grassi in un rapporto tale da prevenire la produzione di corpi chetonici.
Il paziente seguiva questo tipo di dieta per almeno una settimana, durante la quale la glicemia veniva rilevata prima e tre ore dopo la colazione per determinare il livello a digiuno e l’effetto del cibo. Si valutava la quantità di zucchero escreto giornalmente e, questa quantità sottratta ai carboidrati disponibili ingeriti, ne forniva approssimativamente l’utilizzazione. I carboidrati disponibili comprendono il 58% di proteine, il 10% di grassi e i carboidrati totali nella dieta. Si è potuto notare che, quando un paziente era sottoposto ad un dieta bilanciata tra proteine, grassi e carboidrati, la quantità di zucchero escreto era abbastanza costante, mentre se la dieta non era ben adattata ai fabbisogni del paziente, la glicosuria era molto variabile.
Se in un paziente la glicosuria era assente e la glicemia normale con un fabbisogno dietetico basale, l’introito calorico veniva gradualmente aumentato sino alla comparsa di glicosuria. La tolleranza veniva accertata così: se un paziente non aveva glicosuria ed era normo-glicemico con una dieta superiore alle 500 calorie rispetto al suo fabbisogno basale, il suo diabete non era considerato così grave da richiedere la terapia insulinica poiché, 500 calorie in più o in meno rispetto al fabbisogno basale, sono sufficienti per svolgere le attività quotidiane. Se, comunque, non era capace di metabolizzare questa quantità, si iniziava il trattamento insulinico.
Il diabete mellito è causato da un’insufficiente secrezione interna del pancreas e, quindi, lo scopo principale della terapia è correggere questa deficienza. Si è riscontrato che se il paziente non è in grado di mantenere la glicemia stabile con una dieta che gli permetta una vita utile ed attiva, viene somministrata la quantità adeguata di insulina per adempiere a questa mancanza.
Nei casi gravi l’insulina fu somministrata per via sottocutanea tre volte al giorno, 30-45 minuti prima dei pasti. Ciò fu fatto in modo che la curva d’ipoglicemia prodotta dall’insulina fosse sovrapposta a quella dell’iperglicemia prodotta dal pasto. In rari casi fu dato un piccolo quarto di dose prima di andare a letto per controllare la glicosuria notturna. I casi meno gravi potrebbero essere trattati con successo con una dose al mattino ed una alla sera o con una dose singola prima di colazione.
Quando veniva instaurata la terapia insulinica, se lo zucchero era presente nel campione d’urine delle 24 ore, il dosaggio veniva gradualmente aumentato sino alla scomparsa della glicosuria. Se il paziente non riceveva sufficiente cibo per il sostentamento, si aumentavano gradualmente dieta e dosaggio insulinico. Se persistevano piccole quantità di zucchero nelle urine, era preferibile accertare in quale periodo della giornata veniva escreto. Per poter far ciò, ogni singolo campione delle 24 ore veniva analizzato separatamente. Un aumento della dose antecedente la comparsa di glicosuria ne preverrà la sua ricomparsa.
Nei casi gravi, si è ritenuto preferibile dare una dose d’insulina più alta al mattino, riducendo le altre dosi durante il giorno. Per esempio, un paziente può ricevere 15 unità al mattino, 10 unità a mezzogiorno e 10 unità la notte. Se vengono iniettate tre dosi uguali può comparire glicosuria al mattino ed ipoglicemia in serata, mentre i picchi ipo ed iperglicemici che causano queste condizioni si possono prevenire con la suddetta ripartizione.
Si rilevò un effetto estremamente variabile dello stesso dosaggio di estratto su differenti soggetti. Cinque pazienti, il cui peso variava dai 46 ai 67 chilogrammi, ricevettero ciascuno 2 cm3 dello stesso lotto di insulina e, in quattro ore, la glicemia diminuì rispettivamente di 12 mg/dl, 44 mg/dl, 128 mg/dl, 146 mg/dl e 180 mg/dl. Tuttavia, un paziente presentò persistentemente marcate diminuzioni della glicemia dopo l’insulina, mentre negli altri la caduta glicemica fu insistentemente minore. Nella nostra esperienza, la maggiore diminuzione della glicemia si presentava nei casi più lievi.
Le glicemie di alcuni pazienti sono state seguite per tutte le 24 ore e si è scoperto che era possibile dosare esattamente l’insulina così da tenere la glicemia entro limiti normali ed evitare anche il rischio di ipoglicemia.
Il mantenimento della glicemia a livelli normali fa scomparire i sintomi della malattia. Il paziente perde la sete irritante, la secchezza di bocca e gola e non chiede più grandi quantità di liquidi con cui prima aveva cercato di combattere tali sintomi. Il minor introito di liquidi diminuisce la poliuria e, l’escrezione urinaria giornaliera scende dai 3-5 litri a normali livelli. L’appetito prima insaziabile è ora soddisfatto con pasti normali, i cui carboidrati sono utilizzati ed il paziente perde il persistente desiderio di cibo.
Abbiamo riscontrato che quando ad un paziente veniva somministrata una dose eccessiva d’insulina vi era una reazione marcata e, l’ipoglicemia che sviluppava aumentava i sintomi, molto simili a quelli osservati negli animali. La reazione iniziava da un’ora e mezza a sei ore dopo la somministrazione della dose eccessiva. Il tempo medio era di 3-4 ore e, l’intervallo variava col soggetto, il dosaggio ed il cibo ingerito. I sintomi premonitori di ipoglicemia erano un’inspiegabile ansia associata ad irrequietezza. A ciò seguiva spesso una sudorazione profusa, il cui sviluppo non era influenzato dalle condizioni atmosferiche. Sembrava che il paziente si trovasse in un’atmosfera esterna gelida o in una stanza riscaldata e ciò fosse indipendente da qualsiasi attività fisica o mentale. Solitamente in questi momenti vi era un imperioso desiderio di cibo. Nessun alimento in particolare era desiderato, ma sembrava soddisfare la maggior parte di qualsiasi tipo.
A questo punto della reazione, il paziente presentava una certa sensazione di tremore nei muscoli delle estremità. Questi sintomi potevano essere anticipatamente controllati. La coordinazione, comunque, era compromessa per i movimenti più leggeri. Assieme a questo, vi era un notevole pallore della pelle con un aumento dei battiti cardiaci sino a 100-120 per minuto e dilatazione delle pupille. La pressione arteriosa scendeva di circa 15-25 mm/Hg ed il paziente avvertiva debolezza. La capacità di svolgere lavori fisici o mentali era fortemente indebolita e, nei casi gravi, c’era spesso un notevole grado di afasia che rendeva difficoltoso l’uso della parola. La memoria verbale e visiva diventava completamente inaffidabile.
L’inizio dei sintomi ipoglicemici non dipende solo dalle dimensioni ma anche dalla rapidità della caduta glicemica. Il livello a cui i sintomi compaiono è lievemente più alto nei diabetici con marcata iperglicemia rispetto a quelli normo-glicemici. Quando la glicemia si riduce bruscamente da livelli alti, i sintomi premonitori possono presentarsi con una glicemia normale compresa tra 100 e 80 mg/dl mentre, i sintomi più spiccati di prostrazione, sudorazione ed atassia si sviluppano tra 80 e 42 mg/dl. Appena un paziente si abitua a glicemie normali, la soglia di queste reazioni si abbassa. Un paziente che aveva già avuto sintomi premonitori d’ipoglicemia a 96 mg/dl, ora non ha reazioni a 76 mg/dl, ma i sintomi iniziano a manifestarsi tra questo livello e 62 mg/dl.
L’ingestione di carboidrati tramite succo d’arancia (da 100 a 200 gr. circa) o di glucosio attenuano questi sintomi in 15-30 minuti. Se la reazione è severa o si manifestano coma o convulsioni, si dovrebbe somministrare epinefrina o glucosio per via endovenosa. Questi ultimi agiscono nell’arco di 3-10 minuti ma, affinché i sintomi non si ripresentino, si deve somministrare glucosio per bocca appena il paziente si riprende. I pazienti sono stati avvertiti che in caso si presentino queste reazioni, devono immediatamente procurarsi carboidrati.
“Solo i grassi bruciano nel fuoco dei carboidrati.” In presenza di diabete grave, la capacità di bruciare glucosio è notevolmente alterata e, di conseguenza, l’eccesso di grassi viene ossidato in modo incompleto, causando un aumento di corpi chetonici. Questi compaiono nel sangue e nelle urine come acetone, acido diacetico e acido etaossibutirrico. L’insulina aumenta il metabolismo glucidico e, quindi, i grassi vengono completamente bruciati. Ciò è dimostrato dal fatto che l’acetone e lo zucchero scompaiono dalle urine quasi simultaneamente dopo un’adeguata somministrazione d’insulina per poi ricomparire se l’insulina stessa viene sospesa.
Poiché il test Rothera è estremamente sensibile, i pazienti sottoposti a diete iperlipidiche possono non avere glicosuria e mostrare ancora tracce di corpi chetonici. È perciò consigliabile un confronto col test al cloruro di ferro. La persistenza di corpi chetonici in quantità rilevabili dal test al cloruro di ferro, richiede sia l’aumento dei carboidrati sia la diminuzione dei grassi alimentari.
Quando la produzione di corpi chetonici è più rapida dell’escrezione, essi si accumulano nel sangue causando sonnolenza e coma. La necessità d’insulina diviene allora imperativa. Dopo la sua somministrazione, l’utilizzo dei carboidrati da parte dell’organismo fornisce la completa combustione dei grassi. Quando veniva ricoverato un paziente in coma, la glicemia e l’analisi delle urine erano eseguite appena possibile (in caso di necessità, l’urina si otteneva per cateterismo). Mentre venivano eseguiti questi test, l’intestino grasso veniva evacuato con abbondanti clisteri. Se vi era iperglicemia e rilevante acetonuria, venivano iniettate dalle 30 alle 50 unità di insulina per via sottocutanea. La glicemia e la glicosuria venivano spesso controllate per il rischio di ipoglicemia, che era prevenuta somministrando dai 30 a i 50 grammi di glucosio in soluzione al 10% per via endovenosa. Se il paziente era in coma profondo, l’insulina veniva somministrata assieme al glucosio per via endovenosa.
Solitamente il paziente riprendeva conoscenza in 3-6 ore e, da quel momento, glucosio e liquidi essenziali venivano somministrati se necessario. Il paziente richiedeva la somministrazione di almeno 200 cm cubi di liquidi ogni ora. Dalle 8 alle 10 ore successive, i corpi chetonici subivano un marcato calo. Il giorno seguente, venivano somministrate proteine ogni 4 ore tramite l’assunzione di un albume d’uovo in 200 cm cubi di succo di arancia.
Dai 2 ai 3 giorni, quando i corpi chetonici erano scomparsi dalle urine, venivano cautamente aggiunti dei grassi, e infine il paziente riprendeva lentamente con la dieta di routine. In seguito veniva trattato come un paziente diabetico a tutti gli effetti. Durante il periodo di coma, il paziente veniva assistito con la massima cura e i materiali tossici venivano eliminati dall’intestino mediante purgazione. Veniva somministrata una grande quantità di liquidi per via endovenosa, sottocutanea o per via rettale per diluire i corpi chetonici e favorire la loro eliminazione. Se si presentavano sintomi di collasso circolatorio era necessario effettuare un’adeguata stimolazione cardiaca.
I risultati più sorprendenti sono stati ottenuti con la procedura descritta sopra. Tuttavia, ci siamo resi conto che maggiore è il periodo di coma non trattato, peggiore è la prognosi per il paziente e più lento il periodo di recupero fisico. Casi di pazienti in coma complicati dalla presenza di gravi infezioni, gangrene, polmonite o intossicazione intestinale riescono a guarire dal coma e dalla chetoacidosi ma vengono però sopraffatti dalle complicanze descritte. Si è notata una marcata lipemia in 3 casi, scomparsa circa 7-10 giorni dopo che il paziente ha cominciato il trattamento con insulina e con una dieta ipolipidica.
Il diabetico grave, la cui capacità di bruciare carboidrati è notevolmente compromessa, ha un quoziente respiratorio continuamente basso, da 0.7 a 0.8, che tende ad aumentare con l’assunzione di glucosio: quando il glucosio e l’insulina vengono somministrati contemporaneamente, il quoziente respiratorio aumenta sensibilmente, mostrando che i carboidrati vengono metabolizzati. Il valore massimo è stato ottenuto utilizzando glucosio puro. Aumenti meno sostanziali avvengono invece quando il paziente assume un pasto misto.
Tutti i pazienti sono aumentati di peso. Si è verificato un aumento del desiderio sessuale ed una maggiore sveltezza nel lavoro fisico e mentale.
Quasi tutti i pazienti hanno ripreso le loro attività di prima e, anche se sotto controllo medico, eseguono le iniezioni giornaliere e organizzano la loro dieta con risultati soddisfacenti.
Tutti i diabetici che non hanno un’adeguata conoscenza dell’alimentazione legata al diabete, dovrebbero essere ospedalizzati per poter ricevere l’istruzione necessaria alla preparazione della propria dieta calcolata e pesata – che potrebbe essere elaborata sulla base di test del glucosio e chetoni nelle urine – per determinare la giusta tolleranza glucidica; il trattamento con insulina, se necessario, potrebbe essere iniziato. I casi lievi, specialmente se i pazienti hanno più di 50 anni d’età, possono essere controllati con la dieta. Quei casi che non possono essere adeguatamente controllati con la sola alimentazione, dovrebbero essere trattati con un dosaggio di insulina che permetta loro un’alimentazione adeguata e gestibile con successo.
Una delle più comuni complicanze del diabete, soprattutto nei pazienti ultra cinquantenni non curati, è la gangrena. Essa è spesso associata a gradi variabili di sclerosi delle arterie delle gambe, che rende estremamente difficoltosa la guarigione. Questa può avvenire mediante l’uso dell’insulina, ma quando si presenta una menomazione permanente, è consigliabile amputare. L’amputazione è anche raccomandabile quando un’infezione è talmente grave da mettere a rischio la vita del paziente. Il trattamento di questi casi è difficile perché, a causa dell’infezione, la produzione giornaliera d’insulina da parte dei loro pancreas è assai variabile. Ma, con un attento trattamento, si può eliminare acetone e zucchero e, la loro condizione generale, può migliorare. L’operazione di amputazione viene effettuata preferibilmente con un anestetico a base di ossido nitroso e ossigeno. Se la glicemia è mantenuta normale e si previene l’acidosi, la ferita guarisce spontaneamente, a condizione che l’amputazione non abbia provocato complicazioni. Per periodi variabili dopo l’operazione, il paziente rimane in trattamento insulinico. In quasi tutti i casi alla fine delle prime 3 o 4 settimane, una moderata ipoglicemia indica che la dose di insulina è eccessiva. È pertanto necessario diminuire l’insulina ed aumentare l’alimentazione. In alcuni casi il trattamento insulinico può venire interrotto.
Nei pazienti diabetici che necessitano di importanti interventi chirurgici, come appendicectomia, colecistectomia e tonsillectomia, o estrazioni dentali, per prima cosa devono eliminarsi glicosuria ed acetonuria a meno che la severità dei sintomi richieda immediata attenzione.
Nei diabetici, la guarigione da infezioni come foruncolosi e carbonchio ed altre intercorrenti come bronchiti, influenza e febbre, è favorita dalla normoglicemia e dall’aumentato metabolismo che la somministrazione d’insulina consentono. Nel diabetico con tubercolosi, l’insulina consente un’alimentazione adeguata tale da combattere l’infezione tubercolare.
Nell’ultimo anno e mezzo non sono stato molto attivo nella pratica medica ma sono anche rimasto molto legato all’ambiente clinico. Sono in contatto con i 15 pazienti che hanno ricevuto per primi l’insulina. Questi pazienti erano tutti diabetici molto gravi. Di questi, 7 erano bambini sotto i 15 anni. È stato possibile grazie ad una cooperazione intelligente dei pazienti mantenere il giusto equilibrio tra alimentazione e dosaggio insulinico e mantenere 6 dei 7 bambini completamente senza zucchero in eccesso.
Nessuno di questi è dovuto tornare in ospedale ed ora necessitano di circa metà dell’insulina rispetto al dosaggio iniziale.
Tutti sono aumentati di peso e di altezza e la maggior parte di loro è cresciuta in modo sano e normale. L’unico bambino in cui l’alimentazione e l’insulina non aveva prodotto risultati soddisfacenti è tornato in ospedale per ulteriori controlli.
Gli altri 8 pazienti erano formati da 4 donne e 3 uomini la cui età era compresa tra 25 e 35 anni. Il peso delle donne variava da 33 a 35 kg. In 2 donne, nonostante abbiano raggiunto un peso ideale o leggermente in sovrappeso e non presentino più i sintomi della malattia, non si è verificato un aumento della tolleranza.
Tutti gli altri, sia uomini che donne, sono stati in grado di ridurre la dose di insulina da 2/3 a 1/5 rispetto alla dose iniziale. Fa eccezione una paziente sottoposta ad amputazione. Aveva il diabete da 6 anni, e prima dell’amputazione la glicemia era 350 mg/dl, e una grande quantità di acetone e di glucosio era stato estratto dalle urine.
Il glucosio e i chetoni sono stati eliminati dal corpo della donna tramite la terapia insulinica prima dell’operazione di amputazione. Dopo l’operazione chirurgica, la paziente è guarita in 3 settimane. Dopo 6 settimane, il trattamento insulinico è stato sospeso e la sua dieta è stata aumentata senza alcun sintomo della malattia.
Ora sono passati circa tre anni dall’operazione e, praticando una dieta senza insulina, la donna riesce a mantenere il suo corpo libero dal glucosio in eccesso.
Può essere interessante citare alcuni casi in dettaglio per meglio illustrare il miglioramento della tolleranza glucidica a seguito del trattamento insulinico.
Caso 1: maschio, 29 anni, aveva sofferto di appendicite cronica. Nel Dicembre 1916 nell’urina del paziente non vi era glicosuria. Nella metà di Marzo 1917, aveva sviluppato improvvisamente poliuria, polifagia e polidipsia e perse 18 kg in quindici giorni. Avvertiva una marcata debolezza. La glicosuria era molto elevata pari a circa 8%. Il 4 Aprile dello stesso anno, il paziente è stato sottoposta al trattamento di Allen e lentamente ha ripreso una tolleranza di circa 200 g di carboidrati disponibili per unità di insulina. Nel Settembre 1917 riprese la sua attività militare ininterrottamente fino al Marzo 1919. La sua tolleranza glucidica era diminuita a circa 150 g. Dopo essersi congedato dall’esercito nel Marzo 1919, il paziente peggiorò fino all’Ottobre 1921 quando una grave influenza definitivamente ridusse la sua tolleranza. Fino a quel momento il corpo del paziente rimase libero da glucosio in eccesso, ma a seguito dell’influenza, la sua tolleranza si ridusse a circa 66 g di carboidrati disponibili, Cominciò a perdere peso velocemente. Si ripresentarono sintomi quali forte sete, fame e poliuria. Le sue forze lentamente calarono e non riuscì a continuare la sua attività militare. La glicosuria era persistente e apparvero corpi chetonici in grande quantità. Il respiro del paziente era carico di acetone.
L’11 Febbraio 1922, il paziente venne portato nel Reparto di Fisiologia dell’Università di Toronto; il quoziente respiratorio era pari a 0.74 senza subire alcun cambiamento dopo l’ingestione di 30 g di glucosio puro. Al paziente vennero somministrati 5 cc di insulina per via sottocutanea e in due ore il quoziente respiratorio aumentò a 0.90. Le urine erano prive di glucosio e il soggetto riprese lucidità fisica e mentale.
A seguito di questo esperimento, il paziente non ricevette insulina; il 15 Maggio 1922 riprese la terapia insulinica che pratica tuttora.
Durante i primi 6 mesi di trattamento insulinico era impossibile mantenere il paziente libero dal glucosio in eccesso, nonostante gli venissero somministrate circa 120 unità di insulina al giorno. Tuttavia, aumentò di peso e le sue condizioni cliniche migliorarono notevolmente.
Nel Gennaio 1923, con i miglioramenti nella qualità dell’insulina, il paziente riuscì a liberarsi quasi totalmente dal glucosio in eccesso. Durante i primi 9 mesi il paziente non richiese una riduzione del dosaggio insulinico, ma dopo quel periodo, circa ogni due mesi, cominciarono a verificarsi episodi gravi di ipoglicemia che richiedevano una riduzione del dosaggio insulinico. L’unica eccezione si presentò nel Giugno 1924, quando il paziente venne sottoposto ad una operazione di appendicectomia. Per mantenere una glicemia stabile, fu necessario aumentare il dosaggio insulinico. Oggi il soggetto richiede circa 1/6 del dosaggio insulinico iniziale. La sua dieta è stata costante durante tutto il periodo di osservazione. Tutti i sintomi attribuibili al diabete sono scomparsi. È aumentato di peso e, a parte la necessità di somministrare insulina regolarmente e controllare la sua dieta, conduce oggi una vita normale. Questo caso è una esemplare per spiegare che solo mantenendo il paziente libero dal glucosio in eccesso per un lungo periodo di tempo è possibile ottenere miglioramenti nella tolleranza glucidica ed una conseguente riduzione del dosaggio insulinico.
Caso 2: femmina, 15 anni. Nell’autunno del 1918, la paziente soffriva di polidipsia, poliuria e debolezza.
Durante l’inverno lamentava dolori alle gambe e alla schiena e soffriva di insonnia. Nel Marzo 1919, questi sintomi divennero molto più gravi. L’appetito divenne eccessivo e comparì una sorta di prurito. Il peso in questo periodo era sceso da 35 kg a 28 kg. La glicosuria cominciò ad apparire e nell’Aprile 1919 la paziente venne affidata alle cure del Dottor F.M. Allen. Durante questo periodo l’alimentazione venne strettamente controllata per mantenere l’urina libera da glucosio. Nonostante questo rigoroso regime alimentare, le condizioni della paziente peggiorarono.
Quando venne affidata alle mie cure nell’Agosto 1922, gli esami mostravano pelle secca, leggero edema alle caviglie, capelli secchi e sottili, addome prominente e debolezza generalizzata. La paziente pesava 19 kg. Nulla da segnalare per quel che riguarda il sistema respiratorio, cardiovascolare, digestivo e nervoso.
La sua alimentazione era costituita da 50 g di proteine, 71 g di grassi e 20 g di carboidrati (990 calorie). Venne immediatamente iniziata la terapia insulinica. In questa prima fase, le unità di insulina erano approssimative poiché era difficile stabilire con precisione il dosaggio adeguato. L’alimentazione venne aumentata giorno dopo giorno fino ad un totale giornaliero di 63 g di proteine, 208 g di grassi e 97 g di carboidrati (2.512 calorie). Questa dieta fu portata avanti fino al 1° Gennaio 1923. L’insulina veniva somministrata 15 - 30 minuti prima dei pasti. Venne calcolata una quantità adeguata di insulina per mantenere l’urina priva di glucosio. Ogni campione di urina venne esaminata e la dose insulinica aumentata leggermente se comparivano tracce di glucosio. Quando si verificarono casi di ipoglicemia, alla paziente venne somministrato del succo di arancia e tavolette di glucosio. Tra il 16 Agosto e il 1 Gennaio, scomparve il glucosio dalle urine tranne in alcune occasioni.
Con questo trattamento la paziente acquistò immediatamente le proprie forze. Il peso aumentò da 20 a 47 kg nei primi 6 mesi. La dieta includeva cibi quali cereali, pane, patate, riso, frumento, tapioca, amido di frumento e anche miele.
Oggi (Giugno 1925), la giovane gode di ottima salute e, per usare le sue parole, “non potrebbe stare meglio”. È cresciuta 10 cm in altezza ed ora pesa 60 kg. La sua dieta attuale, che è solamente approssimativa, è costituita da 125 g di carboidrati, 50 g di proteine e 50 g di grassi. Questa dieta è praticamente la stessa che praticava nel Dicembre 1922. L’insulina necessaria a mantenere le urine prive di glucosio è stata ridotta di circa 1/3.
La Dottoressa Gladys Boyd, a cui sono affidati i pazienti diabetici presso l’Hospital for Sick Children di Toronto, ha potuto seguire numerosi casi di bambini in trattamento insulinico. Ha stimato il fabbisogno di insulina per 10 g di carboidrati in numerosi casi e, in generale, i suoi risultati mostrano un significativo aumento della tolleranza glucidica in tutti i casi in cui la glicosuria e l’iperglicemia erano rigorosamente controllate.
Ricapitolando, il paziente nel Caso 1, che necessitava 6.9 unità per 10 g di CHO nel Marzo 1923, nel Gennaio 1924 erano sufficienti solo 2.6 unità. Nel Caso 2, la giovane necessitava di 7.8 unità per 10 g di CHO nel Gennaio 1925, nel Giugno 1925 solamente 2.8 unità.
La Dottoressa Boyd scoprì che tutti i pazienti che avevano avuto iperglicemia e glicosuria rare e transitorie, avevano goduto di un miglioramento nella tolleranza glucidica. Anche brevi periodi di riposo dell’attività del pancreas per mezzo di una dieta bilanciata e della terapia insulinica portavano a miglioramenti della tolleranza.
Due dei nostri primi casi, Fanny Z. e Elsie N. rappresentano l’unica eccezione alla regola.
Ora Fanny è in buona salute con una glicemia variabile tra 0.3% e 0.4%. È entrata in coma 4 volte. Durante il suo periodo di ricovero in ospedale è notevolmente migliorata anche se ora la sua tolleranza glucidica comincia a ridursi. Elsie ancora viene a farci visita ma è assistita da un’altro medico che le consente di avere glicosuria durante a notte. Sta bene fisicamente ma richiede molta più insulina rispetto a prima.
La Dottoressa Boyd ha scoperto che in questi casi in cui il diabete è tenuto sotto controllo mediante una dieta corretta e una terapia insulinica adeguata, la tolleranza glucidica aumenta.
La prova schiacciante che vi sia una rigenerazione del pancreas con il trattamento insulinico ci viene fornita dalla Dottoressa Boyd e dal Dottor Robinson. Il caso seguente mi è stato riferito direttamente da loro.
Storia clinica: B. N., bianco, maschio, età 9 anni.
Storia familiare: il padre ed uno zio materno sono diabetici. Il diabete è stato diagnosticato in questo bambino quando aveva 2 ani di età. È stato sottoposto a dieta di Allen che gli ha provocato dissenteria ed a ridotto la sua tolleranza.
La sua altezza e il suo peso non erano adeguati alla sua età e le condizioni generali peggioravano di anno in anno fino a diventare più o meno un invalido cronico con frequenti attacchi di acidosi durante l’ultimo anno prima di cominciare la terapia insulinica.
È stato ricoverato presso l’Hospital for Sick Children, Toronto, alla fine di Dicembre 1922. In quel periodo era di statura nana, molto deperito, sempre sonnecchiante e infelice. Pesava 13 kg ed era alto circa 1 m. La sua tolleranza glucidica era diminuita. Il trattamento insulinico venne iniziato immediatamente e la sua dieta fu potenziata e adeguata alla sua età. Gli venne somministrata la quantità di insulina sufficiente a normalizzare la glicemia. Fu dimesso dall’ospedale con una dieta ed una terapia insulinica adeguata. I progressi, sia generali che della funzione pancreatica, furono uniformi e subito visibili. La sua tolleranza ai carboidrati triplicò in un anno da circa 15 g a 54 g di carboidrati. Da invalido cronico nel 1922 diventò il “leader del gruppo” nel 1923. Morì fratturandosi il cranio mentre correva su una slitta. Visse circa 3 ore dopo la terribile caduta e, dopo il decesso, fu effettuato un esame post-mortem. Il pancreas fu rimosso dopo 30 minuti dal decesso. Da questa storia clinica ci si potrebbe aspettare una marcata degenerazione del pancreas. Tuttavia, si presentò solamente una lieve degenerazione mentre altre zone del pancreas mostravano un’attiva rigenerazione sia delle cellule dell’acino che delle isole. Questi cambiamenti rigenerativi erano molto più marcati nella periferia e nei piccoli lobuli rispetto all’area centrale del pancreas.
Le cellule dell’acino stavano proliferando attivamente in cordoni e grappoli formando piccoli lobuli in alcune aree, ed erano strettamente correlati con i nuovi dotti appena formati. Le isole aumentarono nettamente di numero, soprattutto nella periferia rispetto all’area centrale. Queste cellule erano larghe e visibili sotto forma di macchia e potevano essere identificate come cellule delle isole, per la loro particolare forma granulosa come spiegato da Bowie. Questa particolare macchia dimostrò che queste cellule erano interamente cellule beta ed erano probabilmente associate all’aumento della tolleranza glucidica. Dall’altra parte, quelle isole nell’area centrale mostravano un numero elevato di cellule tutte in uno stadio attivo di nutrimento, ma molto raggruppate tra loro. Quella zona del pancreas evidenziava un rapporto equilibrato tra alfa e beta cellule.
Questi studi vennero approfonditi da Bensley, Opie, Allen ed altri studiosi, i quali concordarono con le opinioni della Dottoressa Boyd e del Dottor Robinson.
Il Dottor. F.M. Allen, Morristown N. J., dopo aver usato insulina per circa 3 anni dichiarò “che vi è stato un netto miglioramento della tolleranza, in alcuni casi anche oltre ciò che era possibile senza insulina”. “Questa osservazione è da considerarsi veritiera solo nel caso in cui sia stato precedentemente impiegato un controllo rigoroso e prolungato dei sintomi tramite la dieta. D’altro canto, un aumento marcato della tolleranza, è circoscritto ad un numero minore di casi e non risulta continuativo per nessuno di loro. Non vi è certamente una riduzione della tolleranza col passare del tempo, a condizione che la situazione venga tenuta sotto un adeguato controllo.”
Questa relazione rappresenta uno dei pensieri più tradizionalisti tra i principali medici specialisti statunitensi impegnati nella lotta al diabete su larga scala.
Il Dottor. E.P. Joslin di Boston, uno dei migliori diabetologi al mondo, ha dichiarato che “il diabetico che è capace di ridurre la sua insulina è quello che segue fedelmente la dieta e riduce l’aumento di peso ad un livello moderato.”
Joslin e i suoi collaboratori hanno attentamente analizzato l’aumento di peso e di altezza tra i loro 32 bambini diabetici sotto i 15 anni di età. Le conclusioni sono le seguenti:
(1) L’aumento di peso nel bambino diabetico trattato con insulina è analogo a quello del bambino normale, anche se il primo è ancora sottopeso rispetto all’età, nonostante l’altezza sia spesso normale.
(2) L’aumento di statura nel bambino diabetico insulino-trattato, creduto occasionalmente normale, è di solito inferiore a quello del bambino normale anche se nutrito adeguatamente.
Dei 130 bambini trattati con insulina, 120 sono ancora vivi mentre, dei 164 che non hanno ricevuto l’ormone, 152 sono morti. Dei 120 ancora vivi, il 40% non ha aumentato o addirittura ha diminuito il dosaggio di insulina. Il Dottor Joslin dichiara che, se il 60% dei pazienti che hanno dovuto aumentare il dosaggio di insulina, col tempo saranno in grado anche di ridurlo.
16 bambini diabetici con età inferiore ai 10 anni a cui è stata somministrata insulina secondo le procedure del Dottor Joslin per un periodo medio di 2 anni sono ancora vivi e la durata della loro vita è triplicata rispetto a quella dei bambini diabetici di età simile curati dal Dottor Joslin prima del 1915.
A dispetto della gravità della malattia, si è scoperto che adeguando la dieta e la dose di insulina, tutti i pazienti diabetici possono liberarsi dal glucosio in eccesso. Ciò risulta possibile e caldamente raccomandato sulla base di numerose prove cliniche che evidenziano una rigenerazione delle cellule delle isole pancreatiche a seguito dell’eliminazione dell’iperglicemia. L’aumento della tolleranza è stato rilevato da un dosaggio decrescente dell’insulina somministrata artificialmente. Infatti, in alcuni pazienti diabetici moderatamente gravi, la tolleranza è aumentata tanto sufficientemente da permettere una sospensione della terapia insulinica.
Il diabete mellito può essere considerato essenzialmente un disordine del metabolismo dei carboidrati (Somogyi e Doisy), e secondariamente delle proteine e dei grassi. È indiscutibilmente provato che per il normale metabolismo dei carboidrati siano necessarie adeguate quantità di insulina. Ne consegue, quindi, che il trattamento consiste nel somministrare una sufficiente quantità di insulina per sopperire alla deficienza pancreatica del paziente.
L’insulina consente al paziente diabetico grave di metabolizzare i carboidrati, come mostrato dall’aumento del quoziente respiratorio a seguito della somministrazione di glucosio e insulina.
Essa permette al glucosio di essere immagazzinato nel fegato sotto forma di glicogeno per un utilizzo futuro. La combustione dei carboidrati permette la completa ossidazione dei grassi e l’acidosi scompare. La glicemia normale attenua la grande sete e, di conseguenza, l’introito e l’escrezione di liquidi diminuiscono. Poiché le cellule dei tessuti sono adeguatamente nutrite da una maggiore alimentazione, non vi è più una costante richiesta di cibo, pertanto il diabetico grave che soffre la fame ora ha ristabilito un normale appetito. Con l’aumentato introito calorico, i pazienti acquistano rapidamente forza e peso. La scomparsa dei sintomi della malattia consente ai pazienti diabetici di sentirsi meno tristi e pessimisti ritrovando ottimismo e serenità.
L’insulina non è la cura per il diabete, è una terapia. Essa permette ai diabetici di metabolizzare sufficienti carboidrati, in modo che le proteine ed i grassi possano aggiungersi alla dieta in quantità adeguate a fornire energia per tutte le attività essenziali alla vita dell’uomo.

Tratto da: www.nobelprice.org - Fonte: Nobel Lectures, Physiology or Medicine 1922-1941, Elsevier Publishing Company, Amsterdam, 1965
Traduzione e adattamento a cura di Carmelo D’Alessio e Alberto Zambelli
tratto da http://www.progettodiabete.org

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